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martedì 26 gennaio 2010

Ti ho chiamato per nome …

a cura di Don Domenico

Nel libro di Isaia (43,1) c’è scritto: «Io ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni». Io esisto perché Dio mi ha chiamato per nome, mi ha chiamato ad essere ciò che sono, perché ha amato ciò che io sono. Non mi avrebbe creato se non mi avesse amato. Da sempre mi conosce. Essere creatura significa non poter essere tutto, significa avere dei limiti. L’amore di Dio però non ha limiti di tempo e di intensità, Lui mi ama infinitamente, da sempre e per sempre. Sono conosciuto da Lui nel più profondo della mia anima, molto più di quanto io conosca me stesso. Sono conosciuto non per una conoscenza dall’esterno, come noi conosciamo gli oggetti che sono fuori di noi, ma attraverso l’amore, come una madre conosce il figlio, desiderandomi tutto, corpo anima e spirito. Colui che mi ha chiamato all’esistenza è una Persona, desiderosa di essere amata, che si rivolge a me perché possa sentire la mia risposta. E io gli appartengo. Non perché sia una sua proprietà, ma perché sono parte sua, perché si prende cura di me come di chi è prezioso ai suoi occhi, come una persona a cui Lui può dire “tu”, e io possa rispondere anche io dicendo “Tu”, una persona a cui poter dire “sono contento che tu ci sia”; la mia stessa esistenza mi dice che Lui è contento che io ci sia.

Allora perché esiste il dolore, la sofferenza, il limite, la malattia, la morte? Essere creatura significa non esistere per sempre, avere dei difetti, essere immersi nel tempo, poter soffrire, dover morire. Sono parte della sua natura, come della natura di tutte le cose che ci circondano, degli altri animali: compaiono, si guastano, si trasformano, cambiano, provano gioia e dolore; solo l’uomo può domandarsi però che senso abbia tutto ciò. Quella frase del profeta Isaia sembra una presa in giro, a volte: ti appartengo e tu permetti questo? Mi hai chiamato per nome per farmi conoscere tutto questo male? La libertà che caratterizza l’uomo significa la possibilità di sbagliare, di scegliere il male invece che il bene, di dare sofferenza anziché gioia. Così tutta la natura, con o senza consapevolezza, è caratterizzata dall’evoluzione, dal cambiamento, da errori, da possibili distruzioni, che permettono nuove costruzioni. San Paolo scrive che «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rm 8,22). Dio non dà facili risposte, non ragiona sulla sofferenza, non ha fatto finta che la morte non ci sia, non ha ignorato i nostri dubbi. Se eliminasse la sofferenza che viene dalla libertà umana, ci renderebbe dei computer, forse perfetti, ma senza amore. E se eliminasse la sofferenza che viene dalla natura, cosa essa avrebbe a che fare con l’uomo, come ne potrebbe essere il vertice, il signore?No, Dio ha scelto di assumerla, prenderla su di sé, condividerla, e tutto ciò che è male, ciò che è odio, ciò che ci restringe, ciò che ci consuma, ciò che ci toglie tutto, ha scelto di trasformarlo in bene, in amore, in dono, in speranza, in eternità. Con la sua crocifissione. È la sofferenza di Dio, che condivide la stessa sofferenza dell’uomo, non per aggiungervi la sua, non per raddoppiarla, ma per trasformarla. Ciò che ci allontana da Dio (il peccato, il dolore) diventa ciò che ci rende simili a Dio. Il sacrificio offerto per amore da Gesù è stato accettato dal Padre Celeste, attraverso la Resurrezione, la Pasqua. Dio Padre ha resuscitato il Figlio e lo ha portato in cielo con le sue stimmate, le sue ferite. Il paradiso cancella la sofferenza per sempre, ma non si può cancellare il fatto di aver sofferto. Se però la sofferenza, anche se ingiusta, è stata accettata per amore degli uomini, se invece di farci allontanare da Dio l’abbiamo vissuta insieme con Lui, allora la porteremo con noi in paradiso, come segno non di un’ingiustizia, ma del nostro amore. Solo l’amore dura per sempre, per questo Gesù mostra ancora le sue ferite, dopo la sua resurrezione. La Domenica, il giorno in cui si celebra la resurrezione di Gesù, ci dice che il nostro dolore Dio lo porta con sé, in Paradiso, che il dolore è consolato, la sofferenza è redenta, il nostro limite ci permette di accogliere gli altri, la malattia non cancella la speranza, la morte è l’inizio di una nuova vita. Non dopo, non alla fine dei tempi. Già ora. Attraverso la nostra unione a Gesù nella comunione eucaristica. Il dolore portato nella preghiera, la sofferenza unita a Gesù, i nostri limiti affidati alla Chiesa, la malattia accettata con pazienza perseverante, la morte vissuta con la consolazione dei sacramenti, già ora sono consolati, sono fonte di gioia. Il dolore non è tolto, ma trasformato. La vita assume spessore, le giornate non si assomigliano più l’una all’altra. È nella Messa che tutto il nostro essere viene portato a Dio e trasformato. È lì che io vengo a conoscere davvero Dio, il cui amore non viene mai meno, che vuole avermi per sempre con sé e per questo mi trasformerà, se io lo vorrò, a sua immagine e somiglianza, a tal punto che, pur rimanendo creatura, non conoscerò più morte, né dolore, né sofferenza, né altro limite se non l’amore mio per Dio e per tutti gli uomini. È lì, nella Messa, che io capisco che Dio mi ha chiamato per nome e io davvero gli appartengo.

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