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mercoledì 11 novembre 2009

Il Crocifisso nelle scuole

Molto bello il contributo di Giuseppe sul crocifisso nelle aule scolastiche. Mi sembra interessante quanto scrisse qualche anno fa Riccardo Di Segni, rabbino capo d'Italia, utile per capire anche un punto di vista diverso dal nostro, e per ricordarci che queste questioni non si porrebbero se i cristiani fossero capaci e coraggiosi nella testimonianza della loro fede cristiana, della propria identità, senza arroganza ma senza timidezza.
Ecco di seguito il testo:
Gli antichi testi rabbinici raccontano una storia su Rabban Gamliel (Gamaliele), l'autorevole rabbino che difese nel Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui l'apostolo Paolo si vantava di essere stato discepolo. Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l'idolatria. Gamliel si giustificava in questo modo: "non sono stato io ad andare nel territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio". In altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l'idolatria non deve entrare, e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori. La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se l'avesse voluto, l'abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del cristianesimo trionfante sugli "dei falsi e bugiardi". Da allora fu il cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un processo senza ostacoli, perchè anche nel cristianesimo l'uso delle immagini nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo cristiano così fedele alle sue immagini di culto.
Per Gamliel, che era lo spettatore passivo dell'irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico. Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita l'introduzione di un segno privato in un luogo pubblico. La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un'enfasi esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società. Non bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando più o meno dal principio dell'assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse. In questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d'animo e le domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze. E' vero che il crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perchè è prima di tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso. I cattolici rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si capisce allora perchè non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente. Per noi è prima di tutto l'immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di quel simbolo, brandito come un'arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l'unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di oppressione e intolleranza. L'ultimo Concilio ha cambiato nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell'intolleranza. La domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l'invasione, la forza, l'occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l'occupazione con segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli, rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità, sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante. Pubblicato dalla newletter Kolot: Lunedì, 30 settembre
Testimoniamo Gesù con la nostra vita e con parole che vengano da un cuore innamorato della Chiesa ed ebrei, musulmani, induisti, ecc. potranno prenderci sul serio quando vogliamo condividere i nostri segni religiosi. Che ne dite?

lunedì 9 novembre 2009

L’oratorio “ideale”

di Giorgia e Claudia

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Spazio Giovane: Noi timidi che ci sentiamo gli occhi del mondo addosso.

a cura di Sandra

L’etimologia della parola timidezza ci dà delle informazioni sul significato relazionale di questo termine; deriva infatti dal latino “timere”, temere. La persona timida teme il giudizio negativo dell’altro. La domanda nasce spontanea: si nasce o si diventa timidi? Risposta: si nasce e si diventa timidi. Sappiamo infatti che l’individuo viene al mondo con un suo “carattere” dato da madre natura; per esempio, potrà tendere maggiormente all’introversione oppure all’estroversione. Mettiamo il caso di un bambino con una tendenza innata alla cautela, alla riservatezza, che incontra un ambiente familiare caratterizzato da modalità educative ipercritiche, svalutanti.
Possiamo prevedere che non riuscirà a sviluppare quel sufficiente grado di sicurezza, nelle proprie abilità, indispensabile per tollerare le frustrazioni che nella vita inevitabilmente incontrerà.
Appare chiaro come la timidezza sia una modalità comportamentale che si autorinforza. Spesso infatti, se ci diciamo che “non ce la faremo”, questa profezia si autoavvererà. Come uscire da questo circolo vizioso? Formula magica: ripetiamo dentro di noi che nessuno è per¬fetto (tanto meno noi), che tutti sbagliano, e che il giudizio critico più feroce siamo noi stessi a darcelo. Quindi, se diventiamo meno severi con noi stessi, dandoci il permesso di sperimentare, uscendo dall’”angoletto”, gradualmente svilupperemo la consapevolezza che andiamo bene così come siamo e che la vita va vissuta e non guardata dal balcone.

INTERVISTA A DON PAOLO

a cura di Chiara Campanelli

Sei sempre stato credente?
Sì, sono cresciuto in una famiglia molto credente, che mi ha educato nella fede e mi ha incoraggiato nell’impegno parrocchiale a partire dalla cresima, come allievo catechista nella mia parrocchia dall’età di 12 anni.

Saresti in grado di raccontare la tua storia, prima di diventare prete?
Negli anni del liceo ho vissuto come tutti gli altri, con amicizie nel gruppo parrocchiale, poi, terminato il liceo, ho frequentato l’università nella facoltà di fisica, poi ho iniziato a studiare teologia per laici e ho insegnato religione per un anno. A 22 anni sono entrato in seminario.

Nel corso della tua vita ci avevi pensato di diventare prete, quando avevi, per esempio, 17 anni?
Sì, quando avevo 13 anni, e ho frequentato un gruppo vocazionale per due anni, ma poi ne sono uscito perché non pensavo che fosse quella la mia strada. Qualche anno dopo mi sono fidanzato.

Quali erano e sono i tuoi hobby?
Suonavo la chitarra molto volentieri e mi piacciono gli sport di montagna.

Cosa ti piace di più della vita da prete?
Il rapporto con le persone, nelle quali incontro Gesù, e l’amore per la Chiesa.

La cosa che ti piace di S. Tarcisio e la cosa che non ti piace.
Mi piace la possibilità di iniziare nuovi percorsi pastorali e non mi piace quando si chiacchiera molto.

Hai mai avuto un amico del cuore e come si chiama? A che età l’hai avuto?
Ne ho due. Il primo è Alessandro, che ho conosciuto all’età di 3 anni e col quale siamo stati sempre in classe insieme fino alla fine del liceo. Il secondo si chiama Giovanni, che ho conosciuto quando ho fatto gli incontri di preparazione in seminario, col quale abbiamo ancora molti rapporti, visto che viviamo qui insieme.

Quando eri piccolo, cosa volevi fare di lavoro?
Volevo fare il torero, quando ero piccolo. Crescendo, volevo poi fare l’ingegnere.

Oratorio Spazio di Preghiera

a cura di Antonio

Oratorio San Tarcisio, un pomeriggio qualunque di tanti anni fa. L’oratorio è pieno, tutti sono in attività: gioco, formazione, manutenzione, pulizia…Sono le ore 1 7: ad un tratto un fischio ripetuto. Non è l’ora di chiusura, è l’ora della preghiera…. e tutti sono invitati a partecipare sotto la picchietta della Madonnina alla quale sono dedicati tutti gli oratori di Roma. È una preghiera semplice e breve e tutti in oratorio a quell’ora si fermano per ringraziare e pregare la Madonna per i benefattori e collaboratori degli oratori romani.
Questo è un caro e lontano ricordo, ma in fondo non sarebbe bello riprendere quest’abitudine e ricordare che l’oratorio, oltre che luogo di gioco, è anche spazio di preghiera e formazione spiri¬tuale?

La “mia”parrocchia

a cura di Maddalena

E mi ritrovo sempre ogni mattina a correre su quei 7 gradini, ormai da lunghissimi anni, per cercare il Suo volto. E Lui sempre “gratui¬tamente” mi coinvolge: sacerdoti, bambini, donne anziane, religiose… Ogni giorno opportunità NUOVA per incontrarLo, sì perché il Suo punto di forza è la NOVITÀ. La mia parrocchia VIVE di incontri, vive di questa NOVITÀ.
La mia parrocchia è il cuore del quartiere, il centro; l’oratorio è il giardino del quartiere, e questo è strategico. Il Signore ha trovato un punto perfetto per farsi conoscere.
Tante persone sono “sinceramente” coin¬volte, attratte da Qualcosa di nuovo. Alcuni rimangono ad ascoltare ai margini, altri guardano. Nessuno è indifferente e tutti in qualche modo sono provocati. E questa è secondo me la strada: la provocazione, cioè suscitare in tutti una domanda, un desiderio, poi il Signore “coinvolge” ciascuno a tempo debito.
Le persone anziane sono tante e bisognose; sono le prime frequentatrici della Chiesa; sono le nonne che mantengono viva la fede in Gesù. Insegnano le preghiere ai bambini che vengono al catechismo. L’incontro con loro comunica fede e speranza. I bambini sono tantissimi e si riversano in oratorio come “palline” e godono di questo spazio. Per loro è il mio sguardo di predilezione. Li seguo nella catechesi e vorrei consegnare loro ciò che altri amici mi hanno trasmesso: “TUTTO È VOSTRO SE VOI SIETE DI CRISTO”. Cioè aprirli a questi incontri, a questa NOVITÀ che sola può salvare la nostra vita.
La mia parrocchia risponde REALMENTE a seguire GESÙ: VIA, VERITÀ E VITA; non è un cumulo di iniziative e di impegni che potrebbero dissolversi nel riempimento di vuoti, e questo grazie a don Paolo e agli altri sacerdoti. Si concentra nell’essenzialità del messaggio cristiano: IL DONO DI SÉ NEL “COINVOLGIMENTO” DEL PADRE.

La storia ed il significato dell’oratorio: Don Bosco

a cura di Sara

Vi ricordate la nostra storia dell'oratorio? Ci eravamo lasciati con l'opera di San Filippo Neri, ma non si può parlare di oratorio senza fare riferimento ad un altro importantissimo e bellissimo santo che l'Italia ha avuto: San Giovanni Bosco meglio conosciuto come Don Bosco.
Ma veniamo al punto, che cosa fece di tanto straordinario questo sacerdote?
Don Bosco, nato a Castelnuovo d'Asti nel 1815 e morto a Torino nel 1888, dopo aver concluso i suoi studi in seminario, fu invitato in Convitto a Torino da un altro sacerdote Giuseppe Cafasso, nel 1841.
Una volta arrivato a Torino, ispirato dalle notizie riguardanti Giovanni Cocchi, che prima di lui aveva tentato di radunare in oratorio i ragazzi disagiati e più difficili, Giovanni Bosco decise di scendere per le strade della città ed osservare direttamente, con i propri occhi, in quale stato di degrado fossero i giovani del suo tempo.
Quella che scoprì fu una terribile realtà: in quegli anni infatti si stima che ben 7184 bambini sotto i dieci anni fossero impiegati nelle fabbriche e sfruttati per poche lire.
Nella piazza San Carlo, egli si tratteneva a conversare con piccoli spazzacamini e giovanissimi lavoratori che gli confidavano le problematiche del loro mestiere e della loro vita, spesso li difen¬deva anche dai soprusi dei lavoratori più adulti che tentavano di sottrarre loro la misera paga guada¬gnata, insomma non era proprio la classica vita rose e fiori.
Insieme a Don Cafasso cominciò a visitare anche le carceri e inorridì di fronte al degrado nel quale vivevano giovani dai 12 ai 18 anni, rosicchiati dagli insetti e desiderosi di mangiare anche un misero tozzo di pane.
L'approccio con i detenuti non fu affatto semplice, vi lascio immaginare, ma la sua fede e la sua perseveranza conquistarono a poco a poco tutti i ragazzi, che gli promisero che non appena fos¬sero usciti di prigione lo avrebbero raggiunto alla chiesa di San Francesco.
L'8 Dicembre1841 incontrò, prima di celebrare Messa, Bartolomeo Garelli nella sacrestia della chiesa di San Francesco di Assisi. Questi fu il primo ragazzo che si unì al suo gruppo.
Ma qual'era l'obiettivo di Don Bosco? Vi starete chiedendo, il suo intento, pensate un po', era quello di radunare attorno a sé tutti i bambini ed i ragazzi disagiati nonché gli ex-detenuti per dare il via ad una nuova attività: quella dell'Oratorio di Don Bosco. (continua…..)

Ma chi era San Tarcisio? Seconda parte…

a cura di Don Domenico

Il nome del martire non era Tarcisio, ma Tarsicio, che vuol dire «di Tarso», cioè della città della Cilicia, nella quale era nato l'Apostolo San Paolo. L’unica notizia della sua epoca è la scritta posta da papa Damaso sul suo sepolcro: «Tarcisio portava i misteri di Cristo, quando una mano criminale tentò di profanarli. Egli preferì lasciarsi massacrare, piuttosto che consegnare ai cani arrabbiati il corpo del Signore». C'è un altro particolare suggestivo che appare nelle moderne rievocazioni di San Tarcisio e del suo martirio: quello dell'Ostia rimasta impressa sulla carne del giovane Martire come un sigillo di fedeltà e di purezza. E infatti, il Martirologio Romano, compilato più di mille anni dopo, precisa che sul cadavere del Santo Martire «non fu ritrovato niente del Sacramento, né in mano né tra le vesti». Per spiegare tale prodigiosa sparizione la fantasia devota immaginò che la particola consacrata, strenuamente difesa dal Martire, fosse diventata carne della sua carne, for¬mando così, con lui, un'unica ostia immacolata. Il culto a S. Tarcisio riprese nel secolo scorso grazie al Cardinale Wiseman, autore di Fabiola, il fortunatissimo romanzo sulla «Chiesa delle Cata¬combe», in cui Tarcisio appare come un fanciullo forte e consapevole. Una cappella è stata in¬ti¬tolata a lui dal Collegíum Tarsicii a s. Tarcisio presso la parrocchia del S. Cuore al lungotevere Prati. Nel secolo scorso il santo dell'Eucaristia è stato scelto come patrono dei Chierichetti e degli Aspiranti minori della Gioventù Italiana dell'Azione Cattolica. La data della commemorazione del santo martire è fissata al 15 agosto dal Martirologio Romano e dal Sinassario armeno; nel Colle¬gio Capranica di Roma la festa ricorre il 25 novembre. (continua…)

sabato 7 novembre 2009

Crocifisso: questo sconosciuto!

Mi suscita sempre grande stupore – per non dire seria preoccupazione – sentir parlare tutti e a tutti i livelli di crocifisso SI, crocifisso NO accampando semplici giustificazioni tradizionalistiche e simboliche.
C’è chi dice che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dovrebbe occuparsi di problemi più seri come la lotta alla droga ed all’immigrazione clandestina non sapendo, invece, che tale Corte non ha niente a che vedere con l’Unione Europea. La Corte (emanazione del Consiglio d’Europa di
cui fanno parte 47 Paesi e la Santa Sede ne è osservatore) può solo occuparsi di ricorsi da parte degli Stati membri e dei loro cittadini per presunte violazioni della Convenzione sui diritti dell’uomo.
C’è chi definisce il crocifisso un “simbolo inoffensivo”, come dire: lasciatelo là, guardate altrove, non fa male a nessuno!
Per non parlare poi degli “esperti” del momento: privi di morale ed etica cristiana ma pronti a tirar fuori la spada della Crociata per poi tornare a idolatrare il dio denaro o a dedicarsi a riti pagani del dio Po ed a matrimoni celtici.
La verità è che non esiste nessuna legge (così come si definisce giuridicamente) che da valore al crocifisso. Se ne parla solo nei regolamenti ministeriali relativi agli “arredi scolastici” alla stregua di banchi, sedie, lavagne, cattedre, ecc.
Gesù Cristo non è né “simbolo di una tradizione” né, tantomeno, semplice “simbolo della civiltà ebraico-cristiana”.
Gesù Cristo è un FATTO STORICO, una PERSONA REALE, uccisa e torturata in malo modo pur avendo la possibilità di salvarsi.
È uno “scandalo” sia per chi crede nella Resurrezione e sia per chi si limita al dato storico della crocifissione.
Gesù Cristo è sì un “simbolo” ma di sofferenza e di speranza, di libertà e di umanità; soprattutto, è un “simbolo” di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare…”) e di gratuità (“Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”).
In una società come la nostra, dove tutto è in vendita – compresi affetti e sentimenti – dove gli interessi individuali ed egoisti sono la regola, Cristo è lo “scandalo”.
Per ebrei e musulmani, Gesù è uno dei grandi profeti: perché dovrebbero sentirsi offesi?
Tornano, quindi, attuali che parole di Natalia Ginzburg, atea, scrittrice, giornalista, deputata del PCI scritte – pensate – il 22 marzo 1988 su “L’Unità”: “il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. … Sono duemila anni che diciamo "prima di Cristo" e "dopo Cristo". O vogliamo forse smettere di dire così? … Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. … Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la SOLIDARIETÀ FRA GLI UOMINI. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola.
Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso, di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici. Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente. Ha detto "ama il prossimo come te stesso". Erano parole già scritte nell’Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa. Il contrario degli stupri e dell’indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade. Si parla tanto di pace, ma che cosa dire, a proposito della pace, oltre a queste semplici parole? Sono l’esatto contrario del modo in cui oggi siamo e viviamo. Ci pensiamo sempre, trovando esattamente difficile amare noi stessi e amare il prossimo più difficile ancora, o anzi forse completamente impossibile, e tuttavia sentendo che là è la chiave di tutto. Il crocifisso queste parole non le evoca, perché siamo abituati a veder quel piccolo segno appeso, e tante volte ci sembra non altro che una parte del muro. Ma se ci viene di pensare che a dirle sia stato Cristo, ci dispiace troppo che debba sparire dal muro quel piccolo segno. … Cristo ha scacciato i mercanti dal Tempio. Se fosse qui oggi non farebbe che scacciare mercanti. Per i veri cattolici, deve essere arduo e doloroso muoversi nel cattolicesimo quale è oggi. … Il crocifisso fa parte della storia del mondo. I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto, molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no. Essi sanno bene una cosa sola, che il credere, e il non credere vanno e vengono come le onde del mare. Hanno le idee, in genere, piuttosto confuse e incerte. Soffrono di cose di cui nessuno soffre. Amano magari il crocifisso e non sanno perché. Amano vederlo sulla parete. Certe volte non credono a nulla. È tolleranza consentire a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri”.
Questo è stato scritto 20 anni fa da una non credente. Basterebbe raccontarlo a tanti genitori, insegnanti, ragazzi e nessuno – ateo, cristiano, islamico, ebreo, buddista che sia – si sentirebbe minimamente offeso dal crocifisso.
Quanti di noi oggi sono riusciti a farlo? Passateparola